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C’era una volta nella vecchia Folleria, una birichina di nome Nicù che non faceva altro che dire bugie. Un bel giorno la Fata Checchina dai capelli azzurri ed il viso
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C’era una volta nella vecchia Folleria, una birichina di nome Nicù che non faceva altro che dire bugie. Un bel giorno la Fata Checchina dai capelli azzurri ed il viso candido come la neve, ebbe una bella idea, trasformò Nicù in Pinocchio.
Sulla figura di Pinocchio – burattino umanizzato con la tendenza a nascondersi dietro facili menzogne e a cui cresce il naso in rapporto ad ogni bugia che dice, si identifica il Folletto Nicù, personaggio affabulante che racconta fiabe all’inverso, come un album d’immagini scomposte allestito in forma di musical. Il lieto fine, anche nelle storie inverse, esiste sempre, con una morale vitale di sorrisi e melodie, senza lasciar meno la speranza di poter essere almeno per un giorno un piccolo Pinocchio.
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Un viaggio nel tempo fra miti e tradizioni popolari, ninfe, divinità e strane creature. Da Colapesce, ai dispetti della Fata Morgana al “mistero” di Donna Villa. Quello delle sirene è
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Un viaggio nel tempo fra miti e tradizioni popolari, ninfe, divinità e strane creature. Da Colapesce, ai dispetti della Fata Morgana al “mistero” di Donna Villa.
Quello delle sirene è uno dei miti più saldi nella tradizione della Sicilia, da sempre caratterizzata da uno strettissimo rapporto con il mare che la bagna.
Secondo un’antica leggenda legata a questi esseri misteriosi, infatti, le sirene abiterebbero proprio lo stretto di Messina
“Canti di mare e di sirene” mescola insieme queste leggende e ne racconta l’essenza, attraverso narrazioni, danze e canti di mare, di pescatori e di mattanza.
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La storia di Fiorenzo Lo Piccolo è una di quelle storie che toccano l’intimità di molti artisti che iniziano a fare i conti con la propria esistenza, tra rinunce e
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La storia di Fiorenzo Lo Piccolo è una di quelle storie che toccano l’intimità di molti artisti che iniziano a fare i conti con la propria esistenza, tra rinunce e sacrifici, molto spesso non ricambiati.
Fiorenzo da ragazzo sognava di diventare un grande attore; da bambino lo chiamavano “Piccolo fiore” per via della sua statura; cantava, ballava e recitava davanti ai propri familiari che storcevano il naso alle esibizioni esilaranti di un giovane con aspettative poco realistiche. All’inizio i genitori si divertono ma subito dopo cominciano a mostrare un certo imbarazzo per quel figlio che ostenta con forza le sue capacità di artista insieme alle sue ambizioni, cosa che viene interpretata prima come un capriccio adolescenziale e poi come ossessione. Ma Fiorenzo proprio non riesce ad abbandonare il suo sogno, e si avventura nella grande giungla dei provini, del mondo teatrale in continua evoluzione, quello del cinema e soprattutto si scontra col disagio dei casting director che a volte lo indispongono, scoraggiandolo ancora di più.
Dopo anni di piccoli successi e traversie, Fiorenzo sceglie la via più breve e sofferta. Inizia così un racconto reale e psichico al contempo, che vuole far riflettere, sorridere, che brama una protezione meritocratica senza il continuo timore che il mestiere “d’artista” non abbia un posto considerevole in questa vita, passando sempre all’ultimo posto tra le priorità.
Fiorenzo racconterà tra sorrisi e lacrime, canzoni della sua infanzia la sua vita vissuta, intrattenendo un pubblico immaginario e amorevole forse, che lo accompagnerà fino all’ultimo respiro.
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La storia di Fiorenzo Lo Piccolo è una di quelle storie che toccano l’intimità di molti artisti che iniziano a fare i conti con la propria esistenza, tra rinunce e
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La storia di Fiorenzo Lo Piccolo è una di quelle storie che toccano l’intimità di molti artisti che iniziano a fare i conti con la propria esistenza, tra rinunce e sacrifici, molto spesso non ricambiati.
Fiorenzo da ragazzo sognava di diventare un grande attore; da bambino lo chiamavano “Piccolo fiore” per via della sua statura; cantava, ballava e recitava davanti ai propri familiari che storcevano il naso alle esibizioni esilaranti di un giovane con aspettative poco realistiche. All’inizio i genitori si divertono ma subito dopo cominciano a mostrare un certo imbarazzo per quel figlio che ostenta con forza le sue capacità di artista insieme alle sue ambizioni, cosa che viene interpretata prima come un capriccio adolescenziale e poi come ossessione. Ma Fiorenzo proprio non riesce ad abbandonare il suo sogno, e si avventura nella grande giungla dei provini, del mondo teatrale in continua evoluzione, quello del cinema e soprattutto si scontra col disagio dei casting director che a volte lo indispongono, scoraggiandolo ancora di più.
Dopo anni di piccoli successi e traversie, Fiorenzo sceglie la via più breve e sofferta. Inizia così un racconto reale e psichico al contempo, che vuole far riflettere, sorridere, che brama una protezione meritocratica senza il continuo timore che il mestiere “d’artista” non abbia un posto considerevole in questa vita, passando sempre all’ultimo posto tra le priorità.
Fiorenzo racconterà tra sorrisi e lacrime, canzoni della sua infanzia la sua vita vissuta, intrattenendo un pubblico immaginario e amorevole forse, che lo accompagnerà fino all’ultimo respiro.
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C’era una volta nella vecchia Folleria, una birichina di nome Nicù che non faceva altro che dire bugie. Un bel giorno la Fata Checchina dai capelli azzurri ed il viso
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C’era una volta nella vecchia Folleria, una birichina di nome Nicù che non faceva altro che dire bugie. Un bel giorno la Fata Checchina dai capelli azzurri ed il viso candido come la neve, ebbe una bella idea, trasformò Nicù in Pinocchio.
Sulla figura di Pinocchio – burattino umanizzato con la tendenza a nascondersi dietro facili menzogne e a cui cresce il naso in rapporto ad ogni bugia che dice, si identifica il Folletto Nicù, personaggio affabulante che racconta fiabe all’inverso, come un album d’immagini scomposte allestito in forma di musical. Il lieto fine, anche nelle storie inverse, esiste sempre, con una morale vitale di sorrisi e melodie, senza lasciar meno la speranza di poter essere almeno per un giorno un piccolo Pinocchio.
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La storia di Fiorenzo Lo Piccolo è una di quelle storie che toccano l’intimità di molti artisti che iniziano a fare i conti con la propria esistenza, tra rinunce e
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La storia di Fiorenzo Lo Piccolo è una di quelle storie che toccano l’intimità di molti artisti che iniziano a fare i conti con la propria esistenza, tra rinunce e sacrifici, molto spesso non ricambiati.
Fiorenzo da ragazzo sognava di diventare un grande attore; da bambino lo chiamavano “Piccolo fiore” per via della sua statura; cantava, ballava e recitava davanti ai propri familiari che storcevano il naso alle esibizioni esilaranti di un giovane con aspettative poco realistiche. All’inizio i genitori si divertono ma subito dopo cominciano a mostrare un certo imbarazzo per quel figlio che ostenta con forza le sue capacità di artista insieme alle sue ambizioni, cosa che viene interpretata prima come un capriccio adolescenziale e poi come ossessione. Ma Fiorenzo proprio non riesce ad abbandonare il suo sogno, e si avventura nella grande giungla dei provini, del mondo teatrale in continua evoluzione, quello del cinema e soprattutto si scontra col disagio dei casting director che a volte lo indispongono, scoraggiandolo ancora di più.
Dopo anni di piccoli successi e traversie, Fiorenzo sceglie la via più breve e sofferta. Inizia così un racconto reale e psichico al contempo, che vuole far riflettere, sorridere, che brama una protezione meritocratica senza il continuo timore che il mestiere “d’artista” non abbia un posto considerevole in questa vita, passando sempre all’ultimo posto tra le priorità.
Fiorenzo racconterà tra sorrisi e lacrime, canzoni della sua infanzia la sua vita vissuta, intrattenendo un pubblico immaginario e amorevole forse, che lo accompagnerà fino all’ultimo respiro.
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I signori Makì sono una singolare coppia di mezza età, che si ritrova ad avere una crisi di nervi un’ora prima delle promesse matrimonio per il loro 25 esimo anniversario. Rosario
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I signori Makì sono una singolare coppia di mezza età, che si ritrova ad avere una crisi di nervi un’ora prima delle promesse matrimonio per il loro 25 esimo anniversario.
Rosario è un uomo ambizioso, presuntuoso e legato solo al denaro, che negli anni di giovinezza si è ritrovato a sposare Lina un’ex parrucchiera amatoriale, dopo una sventurata “fuitina”.
Lina è una moglie fedele e altezzosa, che ha accompagnato il marito per 25 anni nei suoi successi con profonda dedizione e coerenza, forse un pizzico di opportunismo per le piccole comodità conquistate.
Un giorno Lina, capisce che la sua vita ha raggiunto l’apice della sua insofferenza, che l’ha resa nel tempo una donna inappagata, irritabile e apatica; così decide di confessare al marito la sua crisi un’ora prima di confermare le promesse di matrimonio.
Rosario non contento della bufera che sta per avverarsi cerca in tutti i modi di quietare la moglie senza successo.
Una commedia onirica e al tempo stesso divertente, commovente, crudele, folle e sincera, che trova in teatro il suo campo di combattimento perla potenza espressiva e realistica di una coppia che mette fuori la propria intimità fino ad arrivare a un lieto fine inaspettato.
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I signori Makì sono una singolare coppia di mezza età, che si ritrova ad avere una crisi di nervi un’ora prima delle promesse matrimonio per il loro 25 esimo anniversario. Rosario
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I signori Makì sono una singolare coppia di mezza età, che si ritrova ad avere una crisi di nervi un’ora prima delle promesse matrimonio per il loro 25 esimo anniversario.
Rosario è un uomo ambizioso, presuntuoso e legato solo al denaro, che negli anni di giovinezza si è ritrovato a sposare Lina un’ex parrucchiera amatoriale, dopo una sventurata “fuitina”.
Lina è una moglie fedele e altezzosa, che ha accompagnato il marito per 25 anni nei suoi successi con profonda dedizione e coerenza, forse un pizzico di opportunismo per le piccole comodità conquistate.
Un giorno Lina, capisce che la sua vita ha raggiunto l’apice della sua insofferenza, che l’ha resa nel tempo una donna inappagata, irritabile e apatica; così decide di confessare al marito la sua crisi un’ora prima di confermare le promesse di matrimonio.
Rosario non contento della bufera che sta per avverarsi cerca in tutti i modi di quietare la moglie senza successo.
Una commedia onirica e al tempo stesso divertente, commovente, crudele, folle e sincera, che trova in teatro il suo campo di combattimento perla potenza espressiva e realistica di una coppia che mette fuori la propria intimità fino ad arrivare a un lieto fine inaspettato.
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C’era una volta nella vecchia Folleria, una birichina di nome Nicù che non faceva altro che dire bugie. Un bel giorno la Fata Checchina dai capelli azzurri ed il viso
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Sulla figura di Pinocchio – burattino umanizzato con la tendenza a nascondersi dietro facili menzogne e a cui cresce il naso in rapporto ad ogni bugia che dice, si identifica il Folletto Nicù, personaggio affabulante che racconta fiabe all’inverso, come un album d’immagini scomposte allestito in forma di musical. Il lieto fine, anche nelle storie inverse, esiste sempre, con una morale vitale di sorrisi e melodie, senza lasciar meno la speranza di poter essere almeno per un giorno un piccolo Pinocchio.
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Rosario è un uomo ambizioso, presuntuoso e legato solo al denaro, che negli anni di giovinezza si è ritrovato a sposare Lina un’ex parrucchiera amatoriale, dopo una sventurata “fuitina”.
Lina è una moglie fedele e altezzosa, che ha accompagnato il marito per 25 anni nei suoi successi con profonda dedizione e coerenza, forse un pizzico di opportunismo per le piccole comodità conquistate.
Un giorno Lina, capisce che la sua vita ha raggiunto l’apice della sua insofferenza, che l’ha resa nel tempo una donna inappagata, irritabile e apatica; così decide di confessare al marito la sua crisi un’ora prima di confermare le promesse di matrimonio.
Rosario non contento della bufera che sta per avverarsi cerca in tutti i modi di quietare la moglie senza successo.
Una commedia onirica e al tempo stesso divertente, commovente, crudele, folle e sincera, che trova in teatro il suo campo di combattimento perla potenza espressiva e realistica di una coppia che mette fuori la propria intimità fino ad arrivare a un lieto fine inaspettato.
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Riportare in scena dopo più di dieci anni ’A Cirimonia è un rischio e un atto d’amore. Specie dopo che due grandi maestri come Enzo Vetrano e Stefano Randisi gli
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Riportare in scena dopo più di dieci anni ’A Cirimonia è un rischio e un atto d’amore. Specie dopo che due grandi maestri come Enzo Vetrano e Stefano Randisi gli hanno dato la vita che gli hanno dato, ma del resto io amo parecchio la possibilità di fallire, e per poi magari rimandare a una prossima volta.
E ’U masculu e ’A fimmina, i due personaggi de ’A Cirimonia, sono proprio così: due entità atterrite e allo stesso tempo indomite, che provano a costruire il limite più spaventoso di tutti, quello che delimita ciò che è vero da ciò che non lo è. E la verità è un obiettivo impossibile, mi pare, nella vita di ciascuno, ma lo stesso loro intendono conquistarlo, annotando presupposti fasulli e certezze che credono acquisite, senza rendersi conto di aver congegnato soltanto avamposti fragilissimi: degli alter ego mediocri e finti tonti, a cui far vivere le simpatiche peripezie col patto che dimentichino la disperazione.
O perlomeno la omettano, corrompendo il ricordo.
E io davvero credo che la memoria sia solo una banale autodeterminazione, qualcosa di indotto e perciò di profondamente incerto, traballante, e traballano proprio le fondamenta sulle quali intendiamo erigere le nostre verità, quel processo che per il solo fatto di concepire una cronologia, innesca il movimento dell’immaginazione. E allora occorrerebbe fare ciò fa la scienza quando smette di fare la scienza e fa ciò che dovrebbe fare qualsiasi scienza, ovvero propendere per l’esplorazione, rinnegare la prova empirica e dare voce alle deduzioni, scommettere, investire su una qualsiasi possibilità e poi erigerla sul trono della verità, con la consapevolezza che si è compiuta una scelta, una scelta in mezzo a molte, e semmai giudicare il perché di quella scelta, e non la scelta in sé.
Pertanto, i due personaggi in scena, se ne stanno in un luogo che ha smesso di rivelarsi, a celebrare una cerimonia sghemba, che si annuncia inutile, una cerimonia che li obbliga a un dialogo che solo apparentemente è privo di senso, un dialogo disteso su di una lingua ruvida, deforme, asintattica e svirgolante, un dialogo straripante di silenzi pieni di paura, che man mano si trasforma, e diviene urlo, esigendo un ritmo da tragedia e una musicalità surreale.
Fino al fallimento finale. Ché quello pretendono, i due, il fallimento, perché è la loro scelta, il solo modo che hanno per finire qualsiasi cosa pensano d’aver cominciato (Rosario Palazzolo).
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Riportare in scena dopo più di dieci anni ’A Cirimonia è un rischio e un atto d’amore. Specie dopo che due grandi maestri come Enzo Vetrano e Stefano Randisi gli
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Riportare in scena dopo più di dieci anni ’A Cirimonia è un rischio e un atto d’amore. Specie dopo che due grandi maestri come Enzo Vetrano e Stefano Randisi gli hanno dato la vita che gli hanno dato, ma del resto io amo parecchio la possibilità di fallire, e per poi magari rimandare a una prossima volta.
E ’U masculu e ’A fimmina, i due personaggi de ’A Cirimonia, sono proprio così: due entità atterrite e allo stesso tempo indomite, che provano a costruire il limite più spaventoso di tutti, quello che delimita ciò che è vero da ciò che non lo è. E la verità è un obiettivo impossibile, mi pare, nella vita di ciascuno, ma lo stesso loro intendono conquistarlo, annotando presupposti fasulli e certezze che credono acquisite, senza rendersi conto di aver congegnato soltanto avamposti fragilissimi: degli alter ego mediocri e finti tonti, a cui far vivere le simpatiche peripezie col patto che dimentichino la disperazione.
O perlomeno la omettano, corrompendo il ricordo.
E io davvero credo che la memoria sia solo una banale autodeterminazione, qualcosa di indotto e perciò di profondamente incerto, traballante, e traballano proprio le fondamenta sulle quali intendiamo erigere le nostre verità, quel processo che per il solo fatto di concepire una cronologia, innesca il movimento dell’immaginazione. E allora occorrerebbe fare ciò fa la scienza quando smette di fare la scienza e fa ciò che dovrebbe fare qualsiasi scienza, ovvero propendere per l’esplorazione, rinnegare la prova empirica e dare voce alle deduzioni, scommettere, investire su una qualsiasi possibilità e poi erigerla sul trono della verità, con la consapevolezza che si è compiuta una scelta, una scelta in mezzo a molte, e semmai giudicare il perché di quella scelta, e non la scelta in sé.
Pertanto, i due personaggi in scena, se ne stanno in un luogo che ha smesso di rivelarsi, a celebrare una cerimonia sghemba, che si annuncia inutile, una cerimonia che li obbliga a un dialogo che solo apparentemente è privo di senso, un dialogo disteso su di una lingua ruvida, deforme, asintattica e svirgolante, un dialogo straripante di silenzi pieni di paura, che man mano si trasforma, e diviene urlo, esigendo un ritmo da tragedia e una musicalità surreale.
Fino al fallimento finale. Ché quello pretendono, i due, il fallimento, perché è la loro scelta, il solo modo che hanno per finire qualsiasi cosa pensano d’aver cominciato (Rosario Palazzolo).
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Riportare in scena dopo più di dieci anni ’A Cirimonia è un rischio e un atto d’amore. Specie dopo che due grandi maestri come Enzo Vetrano e Stefano Randisi gli
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Riportare in scena dopo più di dieci anni ’A Cirimonia è un rischio e un atto d’amore. Specie dopo che due grandi maestri come Enzo Vetrano e Stefano Randisi gli hanno dato la vita che gli hanno dato, ma del resto io amo parecchio la possibilità di fallire, e per poi magari rimandare a una prossima volta.
E ’U masculu e ’A fimmina, i due personaggi de ’A Cirimonia, sono proprio così: due entità atterrite e allo stesso tempo indomite, che provano a costruire il limite più spaventoso di tutti, quello che delimita ciò che è vero da ciò che non lo è. E la verità è un obiettivo impossibile, mi pare, nella vita di ciascuno, ma lo stesso loro intendono conquistarlo, annotando presupposti fasulli e certezze che credono acquisite, senza rendersi conto di aver congegnato soltanto avamposti fragilissimi: degli alter ego mediocri e finti tonti, a cui far vivere le simpatiche peripezie col patto che dimentichino la disperazione.
O perlomeno la omettano, corrompendo il ricordo.
E io davvero credo che la memoria sia solo una banale autodeterminazione, qualcosa di indotto e perciò di profondamente incerto, traballante, e traballano proprio le fondamenta sulle quali intendiamo erigere le nostre verità, quel processo che per il solo fatto di concepire una cronologia, innesca il movimento dell’immaginazione. E allora occorrerebbe fare ciò fa la scienza quando smette di fare la scienza e fa ciò che dovrebbe fare qualsiasi scienza, ovvero propendere per l’esplorazione, rinnegare la prova empirica e dare voce alle deduzioni, scommettere, investire su una qualsiasi possibilità e poi erigerla sul trono della verità, con la consapevolezza che si è compiuta una scelta, una scelta in mezzo a molte, e semmai giudicare il perché di quella scelta, e non la scelta in sé.
Pertanto, i due personaggi in scena, se ne stanno in un luogo che ha smesso di rivelarsi, a celebrare una cerimonia sghemba, che si annuncia inutile, una cerimonia che li obbliga a un dialogo che solo apparentemente è privo di senso, un dialogo disteso su di una lingua ruvida, deforme, asintattica e svirgolante, un dialogo straripante di silenzi pieni di paura, che man mano si trasforma, e diviene urlo, esigendo un ritmo da tragedia e una musicalità surreale.
Fino al fallimento finale. Ché quello pretendono, i due, il fallimento, perché è la loro scelta, il solo modo che hanno per finire qualsiasi cosa pensano d’aver cominciato (Rosario Palazzolo).
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Riportare in scena dopo più di dieci anni ’A Cirimonia è un rischio e un atto d’amore. Specie dopo che due grandi maestri come Enzo Vetrano e Stefano Randisi gli
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Riportare in scena dopo più di dieci anni ’A Cirimonia è un rischio e un atto d’amore. Specie dopo che due grandi maestri come Enzo Vetrano e Stefano Randisi gli hanno dato la vita che gli hanno dato, ma del resto io amo parecchio la possibilità di fallire, e per poi magari rimandare a una prossima volta.
E ’U masculu e ’A fimmina, i due personaggi de ’A Cirimonia, sono proprio così: due entità atterrite e allo stesso tempo indomite, che provano a costruire il limite più spaventoso di tutti, quello che delimita ciò che è vero da ciò che non lo è. E la verità è un obiettivo impossibile, mi pare, nella vita di ciascuno, ma lo stesso loro intendono conquistarlo, annotando presupposti fasulli e certezze che credono acquisite, senza rendersi conto di aver congegnato soltanto avamposti fragilissimi: degli alter ego mediocri e finti tonti, a cui far vivere le simpatiche peripezie col patto che dimentichino la disperazione.
O perlomeno la omettano, corrompendo il ricordo.
E io davvero credo che la memoria sia solo una banale autodeterminazione, qualcosa di indotto e perciò di profondamente incerto, traballante, e traballano proprio le fondamenta sulle quali intendiamo erigere le nostre verità, quel processo che per il solo fatto di concepire una cronologia, innesca il movimento dell’immaginazione. E allora occorrerebbe fare ciò fa la scienza quando smette di fare la scienza e fa ciò che dovrebbe fare qualsiasi scienza, ovvero propendere per l’esplorazione, rinnegare la prova empirica e dare voce alle deduzioni, scommettere, investire su una qualsiasi possibilità e poi erigerla sul trono della verità, con la consapevolezza che si è compiuta una scelta, una scelta in mezzo a molte, e semmai giudicare il perché di quella scelta, e non la scelta in sé.
Pertanto, i due personaggi in scena, se ne stanno in un luogo che ha smesso di rivelarsi, a celebrare una cerimonia sghemba, che si annuncia inutile, una cerimonia che li obbliga a un dialogo che solo apparentemente è privo di senso, un dialogo disteso su di una lingua ruvida, deforme, asintattica e svirgolante, un dialogo straripante di silenzi pieni di paura, che man mano si trasforma, e diviene urlo, esigendo un ritmo da tragedia e una musicalità surreale.
Fino al fallimento finale. Ché quello pretendono, i due, il fallimento, perché è la loro scelta, il solo modo che hanno per finire qualsiasi cosa pensano d’aver cominciato (Rosario Palazzolo).
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Riportare in scena dopo più di dieci anni ’A Cirimonia è un rischio e un atto d’amore. Specie dopo che due grandi maestri come Enzo Vetrano e Stefano Randisi gli
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Riportare in scena dopo più di dieci anni ’A Cirimonia è un rischio e un atto d’amore. Specie dopo che due grandi maestri come Enzo Vetrano e Stefano Randisi gli hanno dato la vita che gli hanno dato, ma del resto io amo parecchio la possibilità di fallire, e per poi magari rimandare a una prossima volta.
E ’U masculu e ’A fimmina, i due personaggi de ’A Cirimonia, sono proprio così: due entità atterrite e allo stesso tempo indomite, che provano a costruire il limite più spaventoso di tutti, quello che delimita ciò che è vero da ciò che non lo è. E la verità è un obiettivo impossibile, mi pare, nella vita di ciascuno, ma lo stesso loro intendono conquistarlo, annotando presupposti fasulli e certezze che credono acquisite, senza rendersi conto di aver congegnato soltanto avamposti fragilissimi: degli alter ego mediocri e finti tonti, a cui far vivere le simpatiche peripezie col patto che dimentichino la disperazione.
O perlomeno la omettano, corrompendo il ricordo.
E io davvero credo che la memoria sia solo una banale autodeterminazione, qualcosa di indotto e perciò di profondamente incerto, traballante, e traballano proprio le fondamenta sulle quali intendiamo erigere le nostre verità, quel processo che per il solo fatto di concepire una cronologia, innesca il movimento dell’immaginazione. E allora occorrerebbe fare ciò fa la scienza quando smette di fare la scienza e fa ciò che dovrebbe fare qualsiasi scienza, ovvero propendere per l’esplorazione, rinnegare la prova empirica e dare voce alle deduzioni, scommettere, investire su una qualsiasi possibilità e poi erigerla sul trono della verità, con la consapevolezza che si è compiuta una scelta, una scelta in mezzo a molte, e semmai giudicare il perché di quella scelta, e non la scelta in sé.
Pertanto, i due personaggi in scena, se ne stanno in un luogo che ha smesso di rivelarsi, a celebrare una cerimonia sghemba, che si annuncia inutile, una cerimonia che li obbliga a un dialogo che solo apparentemente è privo di senso, un dialogo disteso su di una lingua ruvida, deforme, asintattica e svirgolante, un dialogo straripante di silenzi pieni di paura, che man mano si trasforma, e diviene urlo, esigendo un ritmo da tragedia e una musicalità surreale.
Fino al fallimento finale. Ché quello pretendono, i due, il fallimento, perché è la loro scelta, il solo modo che hanno per finire qualsiasi cosa pensano d’aver cominciato (Rosario Palazzolo).
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Riportare in scena dopo più di dieci anni ’A Cirimonia è un rischio e un atto d’amore. Specie dopo che due grandi maestri come Enzo Vetrano e Stefano Randisi gli hanno dato la vita che gli hanno dato, ma del resto io amo parecchio la possibilità di fallire, e per poi magari rimandare a una prossima volta.
E ’U masculu e ’A fimmina, i due personaggi de ’A Cirimonia, sono proprio così: due entità atterrite e allo stesso tempo indomite, che provano a costruire il limite più spaventoso di tutti, quello che delimita ciò che è vero da ciò che non lo è. E la verità è un obiettivo impossibile, mi pare, nella vita di ciascuno, ma lo stesso loro intendono conquistarlo, annotando presupposti fasulli e certezze che credono acquisite, senza rendersi conto di aver congegnato soltanto avamposti fragilissimi: degli alter ego mediocri e finti tonti, a cui far vivere le simpatiche peripezie col patto che dimentichino la disperazione.
O perlomeno la omettano, corrompendo il ricordo.
E io davvero credo che la memoria sia solo una banale autodeterminazione, qualcosa di indotto e perciò di profondamente incerto, traballante, e traballano proprio le fondamenta sulle quali intendiamo erigere le nostre verità, quel processo che per il solo fatto di concepire una cronologia, innesca il movimento dell’immaginazione. E allora occorrerebbe fare ciò fa la scienza quando smette di fare la scienza e fa ciò che dovrebbe fare qualsiasi scienza, ovvero propendere per l’esplorazione, rinnegare la prova empirica e dare voce alle deduzioni, scommettere, investire su una qualsiasi possibilità e poi erigerla sul trono della verità, con la consapevolezza che si è compiuta una scelta, una scelta in mezzo a molte, e semmai giudicare il perché di quella scelta, e non la scelta in sé.
Pertanto, i due personaggi in scena, se ne stanno in un luogo che ha smesso di rivelarsi, a celebrare una cerimonia sghemba, che si annuncia inutile, una cerimonia che li obbliga a un dialogo che solo apparentemente è privo di senso, un dialogo disteso su di una lingua ruvida, deforme, asintattica e svirgolante, un dialogo straripante di silenzi pieni di paura, che man mano si trasforma, e diviene urlo, esigendo un ritmo da tragedia e una musicalità surreale.
Fino al fallimento finale. Ché quello pretendono, i due, il fallimento, perché è la loro scelta, il solo modo che hanno per finire qualsiasi cosa pensano d’aver cominciato (Rosario Palazzolo).
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Novembre
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Un grande baule fatto di luci e di suoni vuole illustrare ai piccoli spettatori una festa fatta di doni e sapori. A Palermo, città colorata, vivono una bimba e la
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Un grande baule fatto di luci e di suoni vuole illustrare ai piccoli spettatori una festa fatta di doni e sapori. A Palermo, città colorata, vivono una bimba e la sua mamma amata; la bimba aspetta con grande apprensione che la notte arrivi. Il giorno seguente, di tutto si aspetta, tranne che a casa sia pronta una vetta, che lei stessa dovrà scalare senza sapere cosa potrà trovare.
“Joca, cannistru e pupa di zuccaru”, doni lasciati dai cari defunti, “ca forsi però nun passavanu da li porti”, ecco arrivata la festa dei morti.
Un giorno nostalgico e malinconico come quello dedicato ai defunti diventa un momento di gioia per i più piccoli. Canti, racconti e danze faranno da cornice al baule delle meraviglie, dai quali usciranno fuori aneddoti e storie che spiegheranno ai più piccini da dove nasce e come è cambiata nel tempo “la festa dei morti”.
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Un grande baule fatto di luci e di suoni vuole illustrare ai piccoli spettatori una festa fatta di doni e sapori. A Palermo, città colorata, vivono una bimba e la
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Un grande baule fatto di luci e di suoni vuole illustrare ai piccoli spettatori una festa fatta di doni e sapori. A Palermo, città colorata, vivono una bimba e la sua mamma amata; la bimba aspetta con grande apprensione che la notte arrivi. Il giorno seguente, di tutto si aspetta, tranne che a casa sia pronta una vetta, che lei stessa dovrà scalare senza sapere cosa potrà trovare.
“Joca, cannistru e pupa di zuccaru”, doni lasciati dai cari defunti, “ca forsi però nun passavanu da li porti”, ecco arrivata la festa dei morti.
Un giorno nostalgico e malinconico come quello dedicato ai defunti diventa un momento di gioia per i più piccoli. Canti, racconti e danze faranno da cornice al baule delle meraviglie, dai quali usciranno fuori aneddoti e storie che spiegheranno ai più piccini da dove nasce e come è cambiata nel tempo “la festa dei morti”.
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Antonio ha tanti nomi, nomignoli, soprannomi, uno per ogni nazione in cui ha vissuto. Ed è proprio da questi nomi che inizia il racconto, dall’istante in cui prende consapevolezza della
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Antonio ha tanti nomi, nomignoli, soprannomi, uno per ogni nazione in cui ha vissuto. Ed è proprio da questi nomi che inizia il racconto, dall’istante in cui prende consapevolezza della propria condizione di perenne straniero: “Minchia!” Provando a tenere insieme i pezzi della propria vita, la storia si muove tra i ricordi e le sensazioni provate. Così un pacco di fiammiferi e l’odore del sugo appena pronto, aprono una riflessione sulla contemporaneità, la sua globalizzazione e su una generazione dalle radici sempre più spezzettate.
“Minchia” è un percorso che porta all’esplorazione del sentimento di frammentazione provato da chi, oggi più che mai, si ritrova a vivere tra diverse città, regioni, nazioni. Parla di tutte quelle persone che, a causa dell’emigrazione contemporanea, mettono radici un po’ ovunque fino a sentirsi figli del mondo. Un sentimento di inadeguatezza che rende perennemente fuori posto e incompleti.
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Antonio ha tanti nomi, nomignoli, soprannomi, uno per ogni nazione in cui ha vissuto. Ed è proprio da questi nomi che inizia il racconto, dall’istante in cui prende consapevolezza della propria condizione di perenne straniero: “Minchia!” Provando a tenere insieme i pezzi della propria vita, la storia si muove tra i ricordi e le sensazioni provate. Così un pacco di fiammiferi e l’odore del sugo appena pronto, aprono una riflessione sulla contemporaneità, la sua globalizzazione e su una generazione dalle radici sempre più spezzettate.
“Minchia” è un percorso che porta all’esplorazione del sentimento di frammentazione provato da chi, oggi più che mai, si ritrova a vivere tra diverse città, regioni, nazioni. Parla di tutte quelle persone che, a causa dell’emigrazione contemporanea, mettono radici un po’ ovunque fino a sentirsi figli del mondo. Un sentimento di inadeguatezza che rende perennemente fuori posto e incompleti.
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Opificio03 vuole rispecchiare la natura del libro “Fiabe Italiane”: restituire la diversità dei racconti delle regioni d’Italia. La cornice del mercato è un pretesto per far nascere storie, racconti, canti
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Opificio03 vuole rispecchiare la natura del libro “Fiabe Italiane”: restituire la diversità dei racconti delle regioni d’Italia. La cornice del mercato è un pretesto per far nascere storie, racconti, canti e balli della tradizione popolare, sempre più dimenticata e quasi mai conosciuta dai più giovani. Nasce l’esigenza di riscoprire un passato comune donandogli nuova veste: una forma di spettacolo tout public, adatto ai piccoli ma anche ai più grandi, che porta in scena il teatro della fiera.
La fiaba siciliana che abbiamo scelto è “Massaro Verità”; nei 20 minuti messi a disposizione per la fase finale del bando vorremmo mettere in scena non solo la fiaba ma anche la cornice del mercato dalla quale nella versione lunga scaturiranno anche altre favole tra le quali, oltre la siciliana, alcune provenienti dal nord e dal centro Italia.
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Antonio ha tanti nomi, nomignoli, soprannomi, uno per ogni nazione in cui ha vissuto. Ed è proprio da questi nomi che inizia il racconto, dall’istante in cui prende consapevolezza della
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Antonio ha tanti nomi, nomignoli, soprannomi, uno per ogni nazione in cui ha vissuto. Ed è proprio da questi nomi che inizia il racconto, dall’istante in cui prende consapevolezza della propria condizione di perenne straniero: “Minchia!” Provando a tenere insieme i pezzi della propria vita, la storia si muove tra i ricordi e le sensazioni provate. Così un pacco di fiammiferi e l’odore del sugo appena pronto, aprono una riflessione sulla contemporaneità, la sua globalizzazione e su una generazione dalle radici sempre più spezzettate.
“Minchia” è un percorso che porta all’esplorazione del sentimento di frammentazione provato da chi, oggi più che mai, si ritrova a vivere tra diverse città, regioni, nazioni. Parla di tutte quelle persone che, a causa dell’emigrazione contemporanea, mettono radici un po’ ovunque fino a sentirsi figli del mondo. Un sentimento di inadeguatezza che rende perennemente fuori posto e incompleti.
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Natale si avvicina, è nell’aria… si respira odore di festa, colori e profumi riflettono aspettative di pace, di armonia, di unione, “la gente diventa più buona”, tutti sorridono a tutti.
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Natale si avvicina, è nell’aria… si respira odore di festa, colori e profumi riflettono aspettative di pace, di armonia, di unione, “la gente diventa più buona”, tutti sorridono a tutti. Ma cosa realmente cambia dentro ognuno di noi? Cosa si trasforma? Alcuni riescono veramente a trovare e vivere con gioia il significato autentico del Natale, alcuni si illudono di ritrovare la propria dimensione spirituale mentre altri, apparentemente lontani dallo spirito natalizio, si ritrovano protagonisti di curiose e intriganti notti da brivido! “Eravamo io e Jenny quella notte di Natale… ma nessuno di noi due sapeva che fosse Natale!”: è questo l’enigmatico inizio di Yellow Jazz, una performance teatrale-musicale, dove racconti gialli si mescolano a una elegante combinazione di musica jazz e musica mediterranea dove si fondono sonorità multietniche e ritmi della nostra tradizione musicale.
Due personaggi raccontano storie tinte di giallo, misteriose e suggestive notti dove essi stessi sono protagonisti, mentre le musiche scandiscono e riflettono la narrazione e la tensione crescente della storia. Il significato del Natale viene riscoperto sotto una luce diversa, più autentica, un Natale che vuole essere non solo festa di rinascita ma anche un’occasione per celebrare chi vive ai margini della società e intende percorrere un sentiero di riabilitazione spirituale.
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Natale si avvicina, è nell’aria… si respira odore di festa, colori e profumi riflettono aspettative di pace, di armonia, di unione, “la gente diventa più buona”, tutti sorridono a tutti.
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Natale si avvicina, è nell’aria… si respira odore di festa, colori e profumi riflettono aspettative di pace, di armonia, di unione, “la gente diventa più buona”, tutti sorridono a tutti. Ma cosa realmente cambia dentro ognuno di noi? Cosa si trasforma? Alcuni riescono veramente a trovare e vivere con gioia il significato autentico del Natale, alcuni si illudono di ritrovare la propria dimensione spirituale mentre altri, apparentemente lontani dallo spirito natalizio, si ritrovano protagonisti di curiose e intriganti notti da brivido! “Eravamo io e Jenny quella notte di Natale… ma nessuno di noi due sapeva che fosse Natale!”: è questo l’enigmatico inizio di Yellow Jazz, una performance teatrale-musicale, dove racconti gialli si mescolano a una elegante combinazione di musica jazz e musica mediterranea dove si fondono sonorità multietniche e ritmi della nostra tradizione musicale.
Due personaggi raccontano storie tinte di giallo, misteriose e suggestive notti dove essi stessi sono protagonisti, mentre le musiche scandiscono e riflettono la narrazione e la tensione crescente della storia. Il significato del Natale viene riscoperto sotto una luce diversa, più autentica, un Natale che vuole essere non solo festa di rinascita ma anche un’occasione per celebrare chi vive ai margini della società e intende percorrere un sentiero di riabilitazione spirituale.
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Natale si avvicina, è nell’aria… si respira odore di festa, colori e profumi riflettono aspettative di pace, di armonia, di unione, “la gente diventa più buona”, tutti sorridono a tutti. Ma cosa realmente cambia dentro ognuno di noi? Cosa si trasforma? Alcuni riescono veramente a trovare e vivere con gioia il significato autentico del Natale, alcuni si illudono di ritrovare la propria dimensione spirituale mentre altri, apparentemente lontani dallo spirito natalizio, si ritrovano protagonisti di curiose e intriganti notti da brivido! “Eravamo io e Jenny quella notte di Natale… ma nessuno di noi due sapeva che fosse Natale!”: è questo l’enigmatico inizio di Yellow Jazz, una performance teatrale-musicale, dove racconti gialli si mescolano a una elegante combinazione di musica jazz e musica mediterranea dove si fondono sonorità multietniche e ritmi della nostra tradizione musicale.
Due personaggi raccontano storie tinte di giallo, misteriose e suggestive notti dove essi stessi sono protagonisti, mentre le musiche scandiscono e riflettono la narrazione e la tensione crescente della storia. Il significato del Natale viene riscoperto sotto una luce diversa, più autentica, un Natale che vuole essere non solo festa di rinascita ma anche un’occasione per celebrare chi vive ai margini della società e intende percorrere un sentiero di riabilitazione spirituale.
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La Passione di Stracci è un nuovo testo di Gigi Borruso, che Ditirammu e il Museo Sociale Danisinni portano in scena per la stagione 23/24 in prima assoluta. La pièce
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La Passione di Stracci è un nuovo testo di Gigi Borruso, che Ditirammu e il Museo Sociale Danisinni portano in scena per la stagione 23/24 in prima assoluta.
La pièce nasce da una riflessione intorno all’opera di Pasolini e si iscrive nella ricerca di Gigi Borruso intorno alle marginalità umane e sociali. Ricerca che lo ha sempre impegnato come autore, regista, attore, con spettacoli come “Luigi che sempre ti penza” (menzione speciale Premio Tuttoteatro 2006 e finalista premio Betti), “Un errore umano” (Premio Fersen per la drammaturgia, 2015) o “Fuori campo” (Premio Tuttoteatro Dante Cappelletti, 2009) .
La Passione di Stracci è certamente anche frutto dell’esperienza che Borruso ha compiuto in questi anni insieme a Valentina Console con il Museo Sociale Danisinni, dove ha diretto il Laboratorio di teatro sociale DanisinniLab, indirizzato alla ricerca d’un possibile dialogo con l’ambiente sottoproletario nel quartiere Danisinni di Palermo.
Il testo si ispira liberamente al film “La ricotta”, adoperato come antefatto dell’azione, che si immagina abbia inizio due giorni dopo l’ultima scena del film. La trama si sviluppa quindi in maniera autonoma, ambientata ai nostri giorni, in un contesto popolare palermitano.
Il plot narrativo prende le mosse lì dove il cortometraggio di Pasolini “La ricotta” ci lascia ed è centrato sulla figura di Stracci, il povero disgraziato, attore per caso, arruolato da una troupe cinematografica per il ruolo del “Ladrone Buono” in un film sulla Passione di Cristo e spirato sulla croce durante le riprese nell’indifferenza generale.
In un atmosfera irreale e onirica, il fantasma di Stracci, ignaro della sua condizione, sta appollaiato fra i resti di quel set abbandonato fra le croci e i fondali di tela. Lena, la moglie e Vita, la figlia, lo raggiungono, si siedono ai suoi piedi in silenzio. Stracci racconta loro in modo febbrile del set, sforzandosi di descrivere quel mondo dell’arte per lui oscuro e bizzarro. È un racconto, il suo, pieno di equivoci, di inconsapevole comicità, a volte ispirato, a volte rabbioso o volgare.
Stracci è un piccolo ladruncolo per necessità, un piccolo uomo sospeso fra candore e furbizia, fra un caotico desiderio di vita, di rivalsa e la malinconica incapacità di comprendere il mondo. Lena, persa in un dolore muto, si ravviva solo masticando un panino tirato fuori dal “cestino” che Stracci le ha conservato e si abbandona inaspettatamente a sognare la magia del mondo dei film, mentre Vita, la figlia, una giovane ragazza malaticcia ed enigmatica, resta chiusa in un silenzio ostinato. Ma dove sono finiti tutti, dove s’è spostato il set, si chiede disperatamente Stracci. E quando finalmente Lena gli rivelerà che egli è morto, eccolo rivivere le immagini della sua agonia, legato in croce e nelle orecchie le urla d’un assistente che gli suggeriva l’unica sua battuta: “Signore, ricordati di me quando andrai nel tuo Regno” .
Ma cosa sono venute a fare qui Lena e Vita? Ai giornalisti venuti a intervistarle qui, sul luogo della disgrazia, confesseranno i loro desideri, la loro vita di stenti e di abusi, la loro quotidiana lotta contro la puzza di fogna che impregna la casa, i tentativi di suicidio di Vita, l’amore per le “statuette a porcellana” di Lena. Ma che speranza hanno che qualcuno davvero le ascolti, le veda? A chi chiederanno la paga di Stracci? Forse, potrebbero rivendere la croce di legno… E Stracci, cosa dirà a quelli che lo vogliono Santo, a quelli che lo chiamano eroe? Cosa dirà all’Angelo che finalmente gli indicherà la via verso il Regno dei Cieli?
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La Passione di Stracci è un nuovo testo di Gigi Borruso, che Ditirammu e il Museo Sociale Danisinni portano in scena per la stagione 23/24 in prima assoluta. La pièce
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La Passione di Stracci è un nuovo testo di Gigi Borruso, che Ditirammu e il Museo Sociale Danisinni portano in scena per la stagione 23/24 in prima assoluta.
La pièce nasce da una riflessione intorno all’opera di Pasolini e si iscrive nella ricerca di Gigi Borruso intorno alle marginalità umane e sociali. Ricerca che lo ha sempre impegnato come autore, regista, attore, con spettacoli come “Luigi che sempre ti penza” (menzione speciale Premio Tuttoteatro 2006 e finalista premio Betti), “Un errore umano” (Premio Fersen per la drammaturgia, 2015) o “Fuori campo” (Premio Tuttoteatro Dante Cappelletti, 2009) .
La Passione di Stracci è certamente anche frutto dell’esperienza che Borruso ha compiuto in questi anni insieme a Valentina Console con il Museo Sociale Danisinni, dove ha diretto il Laboratorio di teatro sociale DanisinniLab, indirizzato alla ricerca d’un possibile dialogo con l’ambiente sottoproletario nel quartiere Danisinni di Palermo.
Il testo si ispira liberamente al film “La ricotta”, adoperato come antefatto dell’azione, che si immagina abbia inizio due giorni dopo l’ultima scena del film. La trama si sviluppa quindi in maniera autonoma, ambientata ai nostri giorni, in un contesto popolare palermitano.
Il plot narrativo prende le mosse lì dove il cortometraggio di Pasolini “La ricotta” ci lascia ed è centrato sulla figura di Stracci, il povero disgraziato, attore per caso, arruolato da una troupe cinematografica per il ruolo del “Ladrone Buono” in un film sulla Passione di Cristo e spirato sulla croce durante le riprese nell’indifferenza generale.
In un atmosfera irreale e onirica, il fantasma di Stracci, ignaro della sua condizione, sta appollaiato fra i resti di quel set abbandonato fra le croci e i fondali di tela. Lena, la moglie e Vita, la figlia, lo raggiungono, si siedono ai suoi piedi in silenzio. Stracci racconta loro in modo febbrile del set, sforzandosi di descrivere quel mondo dell’arte per lui oscuro e bizzarro. È un racconto, il suo, pieno di equivoci, di inconsapevole comicità, a volte ispirato, a volte rabbioso o volgare.
Stracci è un piccolo ladruncolo per necessità, un piccolo uomo sospeso fra candore e furbizia, fra un caotico desiderio di vita, di rivalsa e la malinconica incapacità di comprendere il mondo. Lena, persa in un dolore muto, si ravviva solo masticando un panino tirato fuori dal “cestino” che Stracci le ha conservato e si abbandona inaspettatamente a sognare la magia del mondo dei film, mentre Vita, la figlia, una giovane ragazza malaticcia ed enigmatica, resta chiusa in un silenzio ostinato. Ma dove sono finiti tutti, dove s’è spostato il set, si chiede disperatamente Stracci. E quando finalmente Lena gli rivelerà che egli è morto, eccolo rivivere le immagini della sua agonia, legato in croce e nelle orecchie le urla d’un assistente che gli suggeriva l’unica sua battuta: “Signore, ricordati di me quando andrai nel tuo Regno” .
Ma cosa sono venute a fare qui Lena e Vita? Ai giornalisti venuti a intervistarle qui, sul luogo della disgrazia, confesseranno i loro desideri, la loro vita di stenti e di abusi, la loro quotidiana lotta contro la puzza di fogna che impregna la casa, i tentativi di suicidio di Vita, l’amore per le “statuette a porcellana” di Lena. Ma che speranza hanno che qualcuno davvero le ascolti, le veda? A chi chiederanno la paga di Stracci? Forse, potrebbero rivendere la croce di legno… E Stracci, cosa dirà a quelli che lo vogliono Santo, a quelli che lo chiamano eroe? Cosa dirà all’Angelo che finalmente gli indicherà la via verso il Regno dei Cieli?
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La Passione di Stracci è un nuovo testo di Gigi Borruso, che Ditirammu e il Museo Sociale Danisinni portano in scena per la stagione 23/24 in prima assoluta. La pièce
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La Passione di Stracci è un nuovo testo di Gigi Borruso, che Ditirammu e il Museo Sociale Danisinni portano in scena per la stagione 23/24 in prima assoluta.
La pièce nasce da una riflessione intorno all’opera di Pasolini e si iscrive nella ricerca di Gigi Borruso intorno alle marginalità umane e sociali. Ricerca che lo ha sempre impegnato come autore, regista, attore, con spettacoli come “Luigi che sempre ti penza” (menzione speciale Premio Tuttoteatro 2006 e finalista premio Betti), “Un errore umano” (Premio Fersen per la drammaturgia, 2015) o “Fuori campo” (Premio Tuttoteatro Dante Cappelletti, 2009) .
La Passione di Stracci è certamente anche frutto dell’esperienza che Borruso ha compiuto in questi anni insieme a Valentina Console con il Museo Sociale Danisinni, dove ha diretto il Laboratorio di teatro sociale DanisinniLab, indirizzato alla ricerca d’un possibile dialogo con l’ambiente sottoproletario nel quartiere Danisinni di Palermo.
Il testo si ispira liberamente al film “La ricotta”, adoperato come antefatto dell’azione, che si immagina abbia inizio due giorni dopo l’ultima scena del film. La trama si sviluppa quindi in maniera autonoma, ambientata ai nostri giorni, in un contesto popolare palermitano.
Il plot narrativo prende le mosse lì dove il cortometraggio di Pasolini “La ricotta” ci lascia ed è centrato sulla figura di Stracci, il povero disgraziato, attore per caso, arruolato da una troupe cinematografica per il ruolo del “Ladrone Buono” in un film sulla Passione di Cristo e spirato sulla croce durante le riprese nell’indifferenza generale.
In un atmosfera irreale e onirica, il fantasma di Stracci, ignaro della sua condizione, sta appollaiato fra i resti di quel set abbandonato fra le croci e i fondali di tela. Lena, la moglie e Vita, la figlia, lo raggiungono, si siedono ai suoi piedi in silenzio. Stracci racconta loro in modo febbrile del set, sforzandosi di descrivere quel mondo dell’arte per lui oscuro e bizzarro. È un racconto, il suo, pieno di equivoci, di inconsapevole comicità, a volte ispirato, a volte rabbioso o volgare.
Stracci è un piccolo ladruncolo per necessità, un piccolo uomo sospeso fra candore e furbizia, fra un caotico desiderio di vita, di rivalsa e la malinconica incapacità di comprendere il mondo. Lena, persa in un dolore muto, si ravviva solo masticando un panino tirato fuori dal “cestino” che Stracci le ha conservato e si abbandona inaspettatamente a sognare la magia del mondo dei film, mentre Vita, la figlia, una giovane ragazza malaticcia ed enigmatica, resta chiusa in un silenzio ostinato. Ma dove sono finiti tutti, dove s’è spostato il set, si chiede disperatamente Stracci. E quando finalmente Lena gli rivelerà che egli è morto, eccolo rivivere le immagini della sua agonia, legato in croce e nelle orecchie le urla d’un assistente che gli suggeriva l’unica sua battuta: “Signore, ricordati di me quando andrai nel tuo Regno” .
Ma cosa sono venute a fare qui Lena e Vita? Ai giornalisti venuti a intervistarle qui, sul luogo della disgrazia, confesseranno i loro desideri, la loro vita di stenti e di abusi, la loro quotidiana lotta contro la puzza di fogna che impregna la casa, i tentativi di suicidio di Vita, l’amore per le “statuette a porcellana” di Lena. Ma che speranza hanno che qualcuno davvero le ascolti, le veda? A chi chiederanno la paga di Stracci? Forse, potrebbero rivendere la croce di legno… E Stracci, cosa dirà a quelli che lo vogliono Santo, a quelli che lo chiamano eroe? Cosa dirà all’Angelo che finalmente gli indicherà la via verso il Regno dei Cieli?
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Le protagoniste di “Girofatando” sono due fate itineranti, che girano il mondo distribuendo i loro doni, i quali possono essere apotropaici oppure dei piccoli dispetti che le fate fanno a
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Le protagoniste di “Girofatando” sono due fate itineranti, che girano il mondo distribuendo i loro doni, i quali possono essere apotropaici oppure dei piccoli dispetti che le fate fanno a chi le chiama o a chi incontrano per strada. I doni sono un pretesto per raccontare storie dove i protagonisti hanno subito i doni o li hanno saputi sfruttare a loro vantaggio. Le fate, tramite giochi di ombre e luce, maschere, travestimenti, oggetti, impersonificheranno i protagonisti delle fiabe raccolte da Calvino, oltre a fare da cornice o commento. Ruolo importante hanno le musiche della tradizione siciliana, scelte per noi dal musicista e compositore Paolo Rigano, che saranno a volte protagoniste di scena, con canto e movimento, a volte supporto al racconto. La finalità di “Girofatando” è riflettere su quanto la nostra reazione, attiva o passiva, agli imprevisti della vita (donidanni delle fate, in questo caso), ci renda artefici del proprio destino.
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Dicembre
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Viaggio oltre le parole è un reading interpretato di alcuni testi scritti da Domenico Ciaramitaro . E’ un lavoro semplice, fatto con il cuore, con la verità che è in
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Viaggio oltre le parole è un reading interpretato di alcuni testi scritti da Domenico Ciaramitaro . E’ un lavoro semplice, fatto con il cuore, con la verità che è in continua ricerca nel lavoro che da anni Domenico segue . Non si vuole catturare il pubblico con l’esteticità dello spettacolo, ma bensi’ porgere allo spettatore delle storie, scritte ascoltando il popolo . Viaggio oltre le parole è un piccolo e umile viaggio tra poesie, storie di quartiere e alcuni pezzi estratti da due lavori teatrali in fase di evoluzione e ricerca. Storie scritte volutamente a penna, tra una passeggiata nei vicoli della città e una passeggiata vicino al mare, successivamente rielaborati in un linguaggio (nella stragrande maggioranza dei casi che è quello della lingua madre Palermitano) che cerca di smuovere le coscienze e sensibilizzare chi le ascolta. Oltre a leggere interpretando i testi, Domenico farà interagire il pubblico facendo scegliere i testi che il pubblico vedrà appesi con dei fili di Nylon. Una drammaturgia che il pubblico inconsapevolmente creerà da se, scegliendo appunto i titoli dei testi che vedrà in scena.
*foto di Anita Margiotta
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Il tema su cui si fonda il progetto è quello del recupero della memoria, soprattutto quando questa viene travisata. A questo scopo, il pubblico di ragazze e ragazzi è chiamato
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Il tema su cui si fonda il progetto è quello del recupero della memoria, soprattutto quando questa viene travisata. A questo scopo, il pubblico di ragazze e ragazzi è chiamato a partecipare attivamente allo spettacolo che sfrutterà il mezzo della video-proiezione per condividere sul palco la pagina Instagram della storia della Serpe Pippina, correlata di immagini e video. Ma la storia, come sappiamo, è stata raccontata malamente da narratori inattendibili come il fanfarone fratello Baldellone, e la sua perfida fidanzata. Scopo degli attori e del pubblico con loro è quello di ricostruire la vera storia di Pippina, attraverso sfide-video interattive (come la scelta del giusto pasticcio durante l’episodio della fatagione o la ricerca a tempo della frutta per la Regina). Il tutto al fine di ricostruire pezzo per pezzo (tramite l’opzione “Aggiungi qualcosa alla tua Storia”) una breve sequenza che ripercorra le tappe fondamentali della vera fiaba di Pippina e della sua trasformazione.
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In una notte piena di mistero, una piccola luce si accende e nel vuoto pieno di attesa una bambina nasce. Wendy accompagnerà il pubblico nei momenti più salienti della sua
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In una notte piena di mistero, una piccola luce si accende e nel vuoto pieno di attesa una bambina nasce. Wendy accompagnerà il pubblico nei momenti più salienti della sua vita. Il Sig. e la Sig.ra Darling, i genitori di Wendy, si presentano attraverso la voce e il corpo della protagonista. Wendy cresce, comincia a farsi delle domande e si racconta al pubblico. Condivide le esperienze che la portano a mutare: la prima nuotata in solitaria, il primo giorno di scuola, le prime mestruazioni, il primo amore, le prime crisi sul futuro. Suo compagno, il tempo inesorabile affianca la vita nel suo percorso. Wendy cresce, diventa più grande e diventando grandi si scopre il mondo esterno: la società è una nuova terra da affrontare ed esplorare. È normale avere paura ma vivere può essere una grande avventura. Wendy si tufferà infine nella fase adulta e come il capitano di una nave, lascerà il pubblico con l’augurio di crescere sempre per vivere ogni giorno nuove esperienze.
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Sfortuna è una fiaba insolita: la sua protagonista infatti non ha infranto il classico divieto per meritarsi le sue sventure, ma le subisce involontariamente, in un’ottica fatalista che si dice
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Sfortuna è una fiaba insolita: la sua protagonista infatti non ha infranto il classico divieto per meritarsi le sue sventure, ma le subisce involontariamente, in un’ottica fatalista che si dice tipica della Sicilia. Lo spettacolo, volendo riportare questa ottica nel contesto storico di Palermo, ambienta la fiaba nella Kalsa durante la guerra (cit. “Venne una guerra al padre; […] prigioniero il Re, la famiglia traversò tempi brutti”): anche questa un evento che si subisce involontariamente. Pure, il senso “iniziatico” ci mostra come affrontare queste sventure, e lo fa proprio attraverso il recupero della tradizione e della storia della città, impersonificato dalla vecchia sorte di Sfortuna. Anche lei, come la protagonista, è fiaccata da un male inevitabile: la vecchiaia. Entrambe imparano prendersi cura una dell’altra, perché (altra peculiarità della fiaba) in questa storia trionfano, ricche o povere, giovani o vecchie, le figure femminili, attive, solidali e padrone del loro destino.
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Clementina abita da sola, in un piccolo paese. È storpia da quando aveva 9 anni. La sua anima bambina è rimasta immobile, dentro un corpo che, ormai, si è fatto
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Clementina abita da sola, in un piccolo paese.
È storpia da quando aveva 9 anni.
La sua anima bambina è rimasta immobile, dentro un corpo che, ormai, si è fatto adulto.
È appassionata di piante e devota alla “madonnina col bambino Gesù”.
È innamorata di un amore impossibile, marchiata da un abuso indicibile e condannata allo sguardo, senza pietà, degli altri.
Clementina gioca con la sua immaginazione, riesce ad attivarla per rivivere “quel giorno”.
Dannata e donata alla ciclicità di un tempo, che non ha il sapore dolce dell’ “ancora un volta”, ma il gusto amaro del “per sempre”. La realtà si fonde e, si confonde, con la fantasia. “Che alcune volte l’immaginazione si infila rabbiosa, nervosa, che io non la controllo. Succede l’immaginazione, ed è una fantasia di realtà troppo richiedente”
Fantasia e realtà esistono e resistono, insieme.
L’immaginazione diventa il modo, forse il solo, per provare a ripensare la realtà in forma diversa, nuova, reinventata. Per sorpassarlo, questo reale intriso di dolore, e “farlo più bello”.
Non si arrende, Clementina.
Fallisce.
Rimescola.
Riprova.
Lo rifà.
Arriverà alla fine?
Sempre che esista, poi, una fine.
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“Mio figlio si chiama “Gelsomino”. Bisogna chiamare le cose col proprio nome, senza girarci intorno e senza addolcire con il politicamente corretto. Niente “diversamente qualcosa” e niente il “non qualcosa”.
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“Mio figlio si chiama “Gelsomino”.
Bisogna chiamare le cose col proprio nome, senza girarci intorno e senza addolcire con il politicamente corretto.
Niente “diversamente qualcosa” e niente il “non qualcosa”. Non chiamatelo “Handicappato” o “Disabile” chiamatelo col suo nome.
Gelsomino H scritto e diretto da Elisa Parrinello, con Maurizio Bologna Carlo Di Vita che interpreta Gelsomino e Gloria Riti che interpreta il fantasma della madre di Gelsomino. Le musiche originali sono di Giacomo Scinardo, il brano “Kalsa” è di Giuseppe Milici, scene e costumi di Elisa Parrinello, assistente ai costumi Donatella Nicosia.
Gelsomino H è la storia di un ragazzo affetto da una malattia degenerativa che non permette al corpo del ragazzo nessun movimento.
Il padre di Gelsomino “Pepi” (Maurizio Bologna) è un vedovo costruttore di Luminarie; innamorato di una moglie che dalla nascita del figlio viene a mancare durante il parto, Pepi trasforma la vita sua e del figlio in una fiaba, fatta di poesie, di racconti surreali, di abiti di color pastello, scene coronate da lucette che sembrano diamanti, mostrando sempre il coraggio di un’altra vita, quasi irreale.
Invece accade che ad un certo punto questa stessa vita si capovolge in una realtà dalla quale è difficile fuggire; una di quelle dove si pensa “che a te non possa accadere”.
E così a volte si può anche perdere la ragione, bramando per qualche istante il desiderio di andar via “dopo il proprio figlio” per proteggerlo ancora cercando di renderlo libero da una vita fatta solo di emarginazione.
Ma l’amore supera la ragione, l’assesta e rinvia il pensiero illogico ma allo stesso tempo giustificato dal dolore di un padre, riprendendo il viaggio di sempre, di ogni giorno, come un orologio meccanico che non finisce mai la sua carica vitale.
“Gelsomino non parla, lo so che non parlerà mai”. Ma nella sua impossibilità fisica ha un’eccellente capacità di sentire e capire qualsiasi cosa attorno a se.
Non è la disabilità a provocare sofferenza.
E’ l’impossibilità di vivere sapendo di esistere”.
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“Mio figlio si chiama “Gelsomino”. Bisogna chiamare le cose col proprio nome, senza girarci intorno e senza addolcire con il politicamente corretto. Niente “diversamente qualcosa” e niente il “non qualcosa”.
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“Mio figlio si chiama “Gelsomino”.
Bisogna chiamare le cose col proprio nome, senza girarci intorno e senza addolcire con il politicamente corretto.
Niente “diversamente qualcosa” e niente il “non qualcosa”. Non chiamatelo “Handicappato” o “Disabile” chiamatelo col suo nome.
Gelsomino H scritto e diretto da Elisa Parrinello, con Maurizio Bologna Carlo Di Vita che interpreta Gelsomino e Gloria Riti che interpreta il fantasma della madre di Gelsomino. Le musiche originali sono di Giacomo Scinardo, il brano “Kalsa” è di Giuseppe Milici, scene e costumi di Elisa Parrinello, assistente ai costumi Donatella Nicosia.
Gelsomino H è la storia di un ragazzo affetto da una malattia degenerativa che non permette al corpo del ragazzo nessun movimento.
Il padre di Gelsomino “Pepi” (Maurizio Bologna) è un vedovo costruttore di Luminarie; innamorato di una moglie che dalla nascita del figlio viene a mancare durante il parto, Pepi trasforma la vita sua e del figlio in una fiaba, fatta di poesie, di racconti surreali, di abiti di color pastello, scene coronate da lucette che sembrano diamanti, mostrando sempre il coraggio di un’altra vita, quasi irreale.
Invece accade che ad un certo punto questa stessa vita si capovolge in una realtà dalla quale è difficile fuggire; una di quelle dove si pensa “che a te non possa accadere”.
E così a volte si può anche perdere la ragione, bramando per qualche istante il desiderio di andar via “dopo il proprio figlio” per proteggerlo ancora cercando di renderlo libero da una vita fatta solo di emarginazione.
Ma l’amore supera la ragione, l’assesta e rinvia il pensiero illogico ma allo stesso tempo giustificato dal dolore di un padre, riprendendo il viaggio di sempre, di ogni giorno, come un orologio meccanico che non finisce mai la sua carica vitale.
“Gelsomino non parla, lo so che non parlerà mai”. Ma nella sua impossibilità fisica ha un’eccellente capacità di sentire e capire qualsiasi cosa attorno a se.
Non è la disabilità a provocare sofferenza.
E’ l’impossibilità di vivere sapendo di esistere”.
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Liberamente ispirato alla storia di Dickens, racconta la storia di un uomo ricco, ma avaro e misantropo, Ebeneezer Scrooge, che intraprende un magico viaggio tra passato, presente e futuro, al
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Liberamente ispirato alla storia di Dickens, racconta la storia di un uomo ricco, ma avaro e misantropo, Ebeneezer Scrooge, che intraprende un magico viaggio tra passato, presente e futuro, al termine del quale scoprirà come sia finito così solo e infelice.
Nella nostra storia il viaggio continua, e ogni 24 dicembre lo Spirito del Natale Presente sceglie quella che è ormai un’anima perduta, proprio come era quella di Scrooge, tra gli esseri umani, ai nostri giorni, così da portarla verso la redenzione tramite la visita dei tre spettri. La sua scelta quest’anno cade su un uomo tanto avaro quanto astuto, capace di stravolgere le carte in tavola e portare il fantasma a rivalutare quelli che è stato il suo passato, presente e futuro.
È così che la storia di A Christmas Carol viene racconta dal punto di vista dei fantasmi.
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“Mio figlio si chiama “Gelsomino”. Bisogna chiamare le cose col proprio nome, senza girarci intorno e senza addolcire con il politicamente corretto. Niente “diversamente qualcosa” e niente il “non qualcosa”.
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“Mio figlio si chiama “Gelsomino”.
Bisogna chiamare le cose col proprio nome, senza girarci intorno e senza addolcire con il politicamente corretto.
Niente “diversamente qualcosa” e niente il “non qualcosa”. Non chiamatelo “Handicappato” o “Disabile” chiamatelo col suo nome.
Gelsomino H scritto e diretto da Elisa Parrinello, con Maurizio Bologna Carlo Di Vita che interpreta Gelsomino e Gloria Riti che interpreta il fantasma della madre di Gelsomino. Le musiche originali sono di Giacomo Scinardo, il brano “Kalsa” è di Giuseppe Milici, scene e costumi di Elisa Parrinello, assistente ai costumi Donatella Nicosia.
Gelsomino H è la storia di un ragazzo affetto da una malattia degenerativa che non permette al corpo del ragazzo nessun movimento.
Il padre di Gelsomino “Pepi” (Maurizio Bologna) è un vedovo costruttore di Luminarie; innamorato di una moglie che dalla nascita del figlio viene a mancare durante il parto, Pepi trasforma la vita sua e del figlio in una fiaba, fatta di poesie, di racconti surreali, di abiti di color pastello, scene coronate da lucette che sembrano diamanti, mostrando sempre il coraggio di un’altra vita, quasi irreale.
Invece accade che ad un certo punto questa stessa vita si capovolge in una realtà dalla quale è difficile fuggire; una di quelle dove si pensa “che a te non possa accadere”.
E così a volte si può anche perdere la ragione, bramando per qualche istante il desiderio di andar via “dopo il proprio figlio” per proteggerlo ancora cercando di renderlo libero da una vita fatta solo di emarginazione.
Ma l’amore supera la ragione, l’assesta e rinvia il pensiero illogico ma allo stesso tempo giustificato dal dolore di un padre, riprendendo il viaggio di sempre, di ogni giorno, come un orologio meccanico che non finisce mai la sua carica vitale.
“Gelsomino non parla, lo so che non parlerà mai”. Ma nella sua impossibilità fisica ha un’eccellente capacità di sentire e capire qualsiasi cosa attorno a se.
Non è la disabilità a provocare sofferenza.
E’ l’impossibilità di vivere sapendo di esistere”.
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Liberamente ispirato alla storia di Dickens, racconta la storia di un uomo ricco, ma avaro e misantropo, Ebeneezer Scrooge, che intraprende un magico viaggio tra passato, presente e futuro, al
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Liberamente ispirato alla storia di Dickens, racconta la storia di un uomo ricco, ma avaro e misantropo, Ebeneezer Scrooge, che intraprende un magico viaggio tra passato, presente e futuro, al termine del quale scoprirà come sia finito così solo e infelice.
Nella nostra storia il viaggio continua, e ogni 24 dicembre lo Spirito del Natale Presente sceglie quella che è ormai un’anima perduta, proprio come era quella di Scrooge, tra gli esseri umani, ai nostri giorni, così da portarla verso la redenzione tramite la visita dei tre spettri. La sua scelta quest’anno cade su un uomo tanto avaro quanto astuto, capace di stravolgere le carte in tavola e portare il fantasma a rivalutare quelli che è stato il suo passato, presente e futuro.
È così che la storia di A Christmas Carol viene racconta dal punto di vista dei fantasmi.
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Canto Ninnarò, il Presepe raccontato è un rito in forma teatrale scritto da Vito Parrinello dopo studi tratti da alcune ricerche “sul campo” effettuate dagli antropologi Antonino Buttitta e Elsa
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Canto Ninnarò, il Presepe raccontato è un rito in forma teatrale scritto da Vito Parrinello dopo studi tratti da alcune ricerche “sul campo” effettuate dagli antropologi Antonino Buttitta e Elsa Guggino. La rappresentazione illustra con racconti, canti e musiche, la storia di Gesù, ripercorrendo i nove giorni che precedono la nascita, chiamati Novena; ogni giornata è scandita dall’accensione di una candela da parte di Turidduzzu; momento centrale dello spettacolo è la rievocazione con il teatro delle ombre, del viaggio da Nazareth verso Betlemme, di Giuseppe e Maria e della nascita di Gesù, che si conclude con l’arrivo alla stalla dei Re Magi. Dopo il teatro delle ombre e i festeggiamenti per la nascita lo spettacolo termina con un’antica ninna della tradizione popolare: il contastorie porge le candele precedentemente accese ai musicisti. Alla fine della ninna, tutti insieme spengono i ceri per non disturbare il sonno di Gesù bambino. Questa stessa ninna, apre lo spettacolo Martorio, di produzione sempre della Compagnia Ditirammu, che racconta la passione, la morte e la resurrezione di Gesù Cristo, in un’ideale “seconda parte” di religiosità popolare.
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Canto Ninnarò, il Presepe raccontato è un rito in forma teatrale scritto da Vito Parrinello dopo studi tratti da alcune ricerche “sul campo” effettuate dagli antropologi Antonino Buttitta e Elsa
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Canto Ninnarò, il Presepe raccontato è un rito in forma teatrale scritto da Vito Parrinello dopo studi tratti da alcune ricerche “sul campo” effettuate dagli antropologi Antonino Buttitta e Elsa Guggino. La rappresentazione illustra con racconti, canti e musiche, la storia di Gesù, ripercorrendo i nove giorni che precedono la nascita, chiamati Novena; ogni giornata è scandita dall’accensione di una candela da parte di Turidduzzu; momento centrale dello spettacolo è la rievocazione con il teatro delle ombre, del viaggio da Nazareth verso Betlemme, di Giuseppe e Maria e della nascita di Gesù, che si conclude con l’arrivo alla stalla dei Re Magi. Dopo il teatro delle ombre e i festeggiamenti per la nascita lo spettacolo termina con un’antica ninna della tradizione popolare: il contastorie porge le candele precedentemente accese ai musicisti. Alla fine della ninna, tutti insieme spengono i ceri per non disturbare il sonno di Gesù bambino. Questa stessa ninna, apre lo spettacolo Martorio, di produzione sempre della Compagnia Ditirammu, che racconta la passione, la morte e la resurrezione di Gesù Cristo, in un’ideale “seconda parte” di religiosità popolare.
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Canto Ninnarò, il Presepe raccontato è un rito in forma teatrale scritto da Vito Parrinello dopo studi tratti da alcune ricerche “sul campo” effettuate dagli antropologi Antonino Buttitta e Elsa
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Canto Ninnarò, il Presepe raccontato è un rito in forma teatrale scritto da Vito Parrinello dopo studi tratti da alcune ricerche “sul campo” effettuate dagli antropologi Antonino Buttitta e Elsa Guggino. La rappresentazione illustra con racconti, canti e musiche, la storia di Gesù, ripercorrendo i nove giorni che precedono la nascita, chiamati Novena; ogni giornata è scandita dall’accensione di una candela da parte di Turidduzzu; momento centrale dello spettacolo è la rievocazione con il teatro delle ombre, del viaggio da Nazareth verso Betlemme, di Giuseppe e Maria e della nascita di Gesù, che si conclude con l’arrivo alla stalla dei Re Magi. Dopo il teatro delle ombre e i festeggiamenti per la nascita lo spettacolo termina con un’antica ninna della tradizione popolare: il contastorie porge le candele precedentemente accese ai musicisti. Alla fine della ninna, tutti insieme spengono i ceri per non disturbare il sonno di Gesù bambino. Questa stessa ninna, apre lo spettacolo Martorio, di produzione sempre della Compagnia Ditirammu, che racconta la passione, la morte e la resurrezione di Gesù Cristo, in un’ideale “seconda parte” di religiosità popolare.
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